Nuvole….

…. NUVOLE …..
Facevamo quel gioco: “che cos’è?” Ed erano vascelli, ippopotami, pagliacci armati d’ascia, ballerini di tango, carote, dirigibili.
Nel cielo passava qualsiasi cosa, e noi scommettevamo sulla forma delle nuvole, distese sulla spiaggia dove l’isola curva e finisce come sull’orlo del mondo. Insieme eravamo una specie di stella, le teste vicine e braccia e gambe larghe sui ciottoli neri. Io sentivo nettamente la sua attitudine carnivora di stella marina, conoscevo i suoi denti piccoli e bianchi e la fame del suo cuore cavo. Però le nuvole erano la nostra tregua – oltre ad essere uno dei modi in cui gli dèi amavano parlarci, o forse noi parlavamo a noi stesse. 
Non sapevamo leggere le nuvole come facevano le zie – loro leggevano ogni cosa: ragnatele, starnuti, venature del legno, davanzali, capelli, palmi delle mani – ma eravamo brave lo stesso: leggere è immaginare, diceva lei, che delle cose vedeva soprattutto gli spazi vuoti, quello che non erano, quello che avrebbero potuto essere, quello che stavano per diventare. Come la forma delle nuvole.
Verso sera passavano i galeoni color porpora: immense nuvole naviglio che veleggiavano lontano, di tramonto in tramonto. C’era un fervore, un disordine di navi di sopra e di sotto, nel cielo e nel mare, dentro e fuori di noi, e non capivamo più quali avremmo voluto per andare via.
Lei, poi, se ne andò davvero. Viaggiò a lungo e confusamente, valicò innumerevoli paesi. Dappertutto, mi diceva – ma la sua voce si faceva sempre più rara, e il suo viso nelle foto cambiava, prendeva tutte le forme – c’erano nuvole diverse, perché si parlavano altre lingue tra terre e cieli. Ma lei, ormai, inseguiva ansiosamente solo se stessa, quello che non era, quello che avrebbe potuto essere.
Non so più sotto quale cielo lei sia, adesso. C’è un momento in cui devi rinunciare agli altri, in cui la loro forma nel cielo cambia, e diventano una cosa diversa. Li segui per un poco, ti dici che è una forma nuova ma la capisci, e invece no: si sfiocca, sconfina in qualcosa d’incomprensibile che ti castiga il cuore, perché non hai un nome, per quella.
Distesa sulla spiaggia, da sola, sono una mezza stella, forse nemmeno. 
Sono le nuvole a guardarci, e scommettere sulla nostra forma.
questi giorni sono pieni di cielo: il cielo è così basso che tocca terra, satura tutte le stanze, mi raggiunge nei corridoi, si stende a terra nello sgabuzzino, nell’androne, nel cantinato. Inciampo nel cielo blu-arancio-nero-turchino-indaco-celeste di settembre, che tappezza i marciapiedi e le strade, e non posso non fare i conti con le nuvole. 
 Le nuvole, si sa, sono soprattutto interiori. 
Sono mondi che ci passano dentro, e noi escogitiamo una forma e un nome, perché è sempre così: ogni cosa, e gli altri soprattutto, sono mondi volanti ai quali ci viene chiesto di trovare il nome, la forma, l’intenzione. Poi loro cambiano, ma noi a volte no. Nei nostri cieli interiori c’è un viavai di nuvole antiche, defunte come certe costellazioni di cui continuiamo a vedere la luce estinta solo per il volere capriccioso dello spazio e del tempo (che poi sono la stessa cosa). Nuvole di pietra, nuvole di legno, nuvole di piombo. Siamo collezionisti di nuvole come siamo collezionisti di sguardi, di mani, di parole: roba pesantissima, senza peso, definitiva, effimera, inafferrabile, perenne.

(Anna Maria Mallamo)